EMOZIONI E BAMBINI
Un esempio di cosa non è l’educazione emotiva.
Voglio raccontare una scena a cui ho assistito qualche giorno fa nella sala d’attesa della pediatra. Un bambino di circa 6 o 7 anni esce in lacrime dall’ambulatorio seguito dal padre, il bambino piange e singhiozza, toccandosi il dito: doveva fare un piccolo prelievo di sangue dal dito per verificare una possibile infezione, ma ha tirato indietro il braccio e la pediatra non è riuscita a prendere abbastanza sangue per il test. Ora, in sala d’attesa, il padre inizia un lungo e tormentoso dialogo (o monologo?) per convincere il figlio.
Dapprima tenta la tattica della premiazione: “Dai, se fai il buchino nel dito, ti compro le figurine”. Ma il bambino ribatte che fa male e non le vuole. “Ma no che non fa male!”, ogni uscita del padre è un misconoscimento delle emozioni del figlio: certo che fa male agli occhi e alla sensibilità di un bambino di 6 anni, fatto sta che bisogna farlo, quindi un premio va bene per consolarsi, ma la cosa va comunque fatta! Se il padre avesse almeno per un momento riconosciuto le emozioni del figlio avendone rispetto, questi certo avrebbe ceduto e tollerato il dolore…Invece il padre continua usando altre tecniche di convincimento, anche offensive a mio avviso, facendolo vergognare di se stesso: “Su, dai, non sei una femminuccia! Sei un maschio vero, non una femmina!!”, “Guarda quella bambina come dorme tranquilla, guarda come è brava”, “Insomma stai facendo perdere tempo a tutti!”. E via discorrendo; ogni battuta del padre ignora il mondo emotivo del figlio e ciò che lui potrebbe provare, non considera come si sente il bambino, non pensa nemmeno per un minuto a dire “Ok, so che fa male e non vorresti, non è piacevole farsi bucare il dito, vieni qua che ti faccio una coccola e poi entriamo”, ma continua a insistere su sensi di colpa (“Mi stai facendo fare tardi”), vergogna (“Non sei altro che un frignone”), minacce: “Ti avverto, se andiamo a casa senza fare il test, te la vedrai con me”. La realtà è che il bambino non deve avere possibilità di scelta, quel test va eseguito per motivi di salute, su cui un bambino non può questionare, il fatto che il padre gli faccia pensare di poterlo evitare grazie alle sue lamentele, non fa altro che confonderlo e rafforzare la sua cocciutaggine nel dire “no, non voglio farlo”. Essere genitori significa avere in pugno la situazione, ascoltare bene le proprie parole, in modo da rendersi conto di ciò che il figlio recepisce e cosa ascolta, senza essere rigidi, ma una volta compreso e accolto le emozioni e le motivazioni del bambino, arriva il momento di assumere il comando. Se quel bambino si fosse sentito capito e rispettato nel suo timore -per noi adulti infondato e inutile- di fare un banale buchino nel dito, forse si sarebbe fatto coraggio e non avrebbe fatto una battaglia senza resa, se il padre avesse lavorato su emozioni e stati d’animo del figlio e non su minacce, premiazioni senza senso (di fronte ad una cosa per lui dolorosa, al figlio non potevano minimamente interessare…), attribuzioni di colpe (“se lo avessi fatto prima, a quest’ora eravamo già a casa)”, avrebbe fatto un passo avanti nell’educazione emotiva, insegnando al figlio a tollerare un’emozione (la paura), gestirla -sentendola accolta-, e quindi superarla, magari col sostegno di papà (“Non preoccuparti, ti tengo io la mano!”).
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