ANORESSIA E DINTORNI
La psicoterapia nasce da alcune premesse. L’idea è che le persone scelgano. Che siano determinate ad agire non da qualche forza superiore (“la malattia”), da qualche essenza presente nella loro mente (“l’incompetenza”) e nemmeno da una qualche forma di determinismo sistemico. Seppure dentro una gamma di possibilità che può essere ampia o ridotta, le persone scelgono.
Poche sindromi come quella anoressica sfidano frontalmente la fiducia sistemica nella libertà di scelta dell’individuo. Come comprendere il fatto che, deliberatamente e con una costanza tanto ostile verso gli altri e verso il proprio corpo, una giovane donna si lasci consumare giorno dopo giorno? O che divori l’intero contenuto del frigo per poi vomitarlo nel bagno, bruciandosi l’esofago? E per giunta lasci tutti a bocca aperta affermando che, secca e smunta com’è in realtà, si vede grassa e sfatta? Come spiegarlo, se non sulla scorta di una follia che non solo la induce all’autodistruzione ma che addirittura l’annebbia, tanto da renderla incapace di sapere cosa vede nello specchio? Come salvarla da tale demone, se non limitandola nella sua libertà di inconsapevole complice/vittima di quello? Eppure in quel momento in cui Mara Selvini Palazzoli ebbe la geniale illuminazione di definire il pervicace digiuno di una ragazza come il suo sciopero della fame, certo immaginava le mille implicazioni di questo modo di descrivere l’astinenza volontaria dal cibo. Innanzitutto esso diventava il frutto di una scelta, consapevole e tenace. Poi aveva un senso: si sciopera per protesta, per affermare un diritto, si sciopera come tentativo estremo e disperato di far ascoltare la propria voce quando la propria voce è soffocata. E poi, la storia di quel comportamento incomprensibile che nasceva dentro la mente malata di una ragazza che aveva perduto il senno, diventava la storia di una relazione. Implicava altri soggetti: si sciopera contro qualcuno.
Gli sviluppi degli approcci psicologici più interessanti vanno nella direzione di leggere la pluralità delle forme di disordini alimentari, cogliendone le possibili varianti personologiche, la molteplicità sintomatica, le diverse narrazioni legate al disordine, le differenti possibili dinamiche relazionali e familiari.
Non credo si debba pretendere di guarire l’anoressia. Il compito della psicoterapia è favorire la cura di sé, cambiare i pattern familiari, permettere a una persona di fare lo svincolo, aumentare il numero delle scelte possibili, trasformare la paziente designata in agente morale di cambiamento. Non c’è una teoria vera intorno all’anoressia, c’è una molteplicità di ipotesi cliniche differenti, una molteplicità di descrizioni delle pazienti anoressiche tra loro contraddittorie, una molteplicità contraddittoria di considerazioni sul proprio disordine da parte della medesima persona, una molteplicità di ipotesi familiari.
Nello stesso tempo, c’è una sola verità: che di anoressia si può morire e che la morte costituisce la verità dell’anoressica, invera l’anoressia. Se l’isteria è un fenomeno mutevole e sfuggente, è un modo paradossale di prendersi cura di sé, manifestando sintomi somatici senza causa organica, l’anoressia è un modo paradossale di morire. Bisogna stare in guardia dall’idea di guarire. Il terapeuta sistemico non è né un medico, né un guaritore o uno sciamano, non è nemmeno un guerriero o un guardiano. Le persone hanno sempre qualcosa che manca, guai se non l’avessero, fa parte della loro qualità umana. Meglio gestire in qualche modo il vuoto che ci abita piuttosto che morirne.
(FONTE: Massimo Giuliani e Pietro Barbetta)
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