NON PULITORI DI PAPERI: OVVERO COME CURARE I DISTURBI ALIMENTARI
Un giovane papero naviga tranquillo sulle acque di un grande stagno. Non ha coscienza che la superficie è inquinata da larghe chiazze di petrolio. Finché un giorno fatica a prendere il volo: le sue piume hanno perso la loro leggerezza. Il panico si impadronisce del papero. Poi -finalmente- qualcuno si accorge del flagello che di è abbattuto su quell’ecosistema. Preleva il papero dallo stagno, lo ripulisce amorevolmente, poi lo getta nuovamente nello stagno – “passo tra una settimana per darti una pulitina…” – e se ne va. Papero non conosce altri luoghi che quello e, pur potendo volare, preferisce rimanere in un habitat sporco, avverso, ma conosciuto, piuttosto che avventurarsi verso l’ignoto.
Ogni sintomo è il prodotto di un sistema, ogni comportamento è una risposta a quello specifico sistema: allora intervenire come i succitati “pulitori di paperi che vivono in stagni inquinati” non ha alcun senso.
Quando lavoravo in una clinica per i disturbi alimentari, la storiella sopra riportata è la teoria di fondo che, nelle intenzioni, ispirava la metodologia di cura di tale clinica. In realtà, nella struttura, ci si comportava esattamente come pulitori di paperi: isolare la paziente attraverso il ricovero, eliminare il sintomo e rispedirla in famiglia. I genitori spesso gioivano sorpresi nel vedere il rapido recupero della figlia, passata magari attraverso molti anni e tentativi di cure infruttuose presso vari specialisti. Ma una volta tornata a casa, la guarigione spesso durava poco, allora la paziente rientrava in clinica e si creava facilmente una dipendenza dall’istituzione e dai curanti che rendeva assai complicato la reintegrazione nel sistema di origine.
Ogni tentativo di tornare a casa causava una ricaduta nel sintomo e nei comportamenti disfunzionali abituali, con la conseguente richiesta della famiglia ai curanti di occuparsi della povera figlia malata, mentre loro assistevano impotenti lavandosene le mani. Ho assistito a diverse storie di questo tipo, a casi incapaci di abbandonare il sintomo nel loro contesto di provenienza. La cosa mi faceva riflettere, e quindi sorridere e gioire compiaciuta nel riconoscere l’importanza e la validità di un modello terapeutico che prevede il coinvolgimento dell’intero nucleo familiare. Molti approcci lavorano escludendo la famiglia dal trattamento, e mi accorgo di quanto una visione esclusivamente individuale sia la strada più difficile, nel trattamento dei disturbi alimentari. La mancanza della famiglia lì presente con tutti quanti i suoi membri ingaggiati, non significa tuttavia per me l’impossibilità di lavorare in senso sistemico; anzi, mi stimola a pensare in tale direzione, a tenere ben presente tutto il contesto, le relazioni, le alleanze, a cercare di presentificare in seduta le persone significative del sistema. Certo è una modalità di intervento più difficile, comporta il rischio di cadere nella visione unica del paziente lì davanti a me, di credere alla “verità” della sua versione dei fatti e colluderci. Tuttavia risulta un campo di prova assai interessante e stimolante, che stuzzica la mia curiosità di conoscere il sistema e ciò che ha creato il problema, che alimenta ogni volta il mio desiderio (e il mio bisogno) di essere un terapeuta sistemico.
Studiando le dinamiche presenti all’interno di famiglie con una figlia anoressica o bulimica, si constata che il vero problema non sono tanto i sintomi quanto i significati che questi vengono ad assumere in ogni specifico gruppo familiare. Se presi unicamente come disturbo mentale, intrinseco all’individuo che li presenta, porteranno alla ricerca da parte dei genitori di “che cosa si è rotto nella sua testa”. La persona in difficoltà diventa materiale di studio e di sconvolgimento degli equilibri familiari ed il suo comportamento anomalo diviene il crogiuolo della sofferenza familiare e la ragione ultima dell’intervento terapeutico a cui si demanda con disperazione la soluzione di un problema senz’altro complesso.
Un modo differente per impostare il problema è quello di considerare la famiglia come risorsa attiva, depositaria di malesseri profondi quanto di energie vitali e risorse, talora imprevedibili. Il primo passo è allora quello di spostare l’attenzione dal rimuovere il sintomo al comprenderne i significati in ciascuna famiglia e proprio in quello specifico momento del suo ciclo vitale. Chi vive in quell’ambiente e ne condivide la storia evolutiva, se aiutato a riscoprire le proprie risorse interne, potrà fornire informazioni e risposte più utili e interessanti di quelle di esperti esterni.