DIETRO AL DISTURBO ALIMENTARE
Il disturbo alimentare altro non è che il fenomeno periferico di un disturbo della relazione dietro il quale si nasconde un importante problema psicologico. Infatti, nella mente del ragazzo o della ragazza con disturbi alimentari, l’oggetto-cibo ha preso il posto di un Tu di riferimento umano. L’oggetto-cibo è controllabile, non abbandona, non tradisce, non castra, non delude. Per conquistarlo basta infilare la testa prima nel frigorifero e poi nel cesso oppure fare come se il cibo non esistesse e la persona vive un surreale ed intenso momento di onnipotenza. Nell’esistenza di un malato di Dca il cibo occupa una funzione centrale, irreale, magica. Cibo: amato, odiato, onnipresente, centro di vita; di una vita ammalata. Cibo: oggetto di lussuria, specchio di narcisismo, metro di potenza del proprio sé e dell’attenzione che l’individuo riesce a suscitare nel prossimo. Controllo sul cibo equivale, nel bene e nel male, in politica come nelle relazioni umane, a controllo del proprio campo di dominio. Una persona con disturbo alimentare è un “diverso”. A volte è solo lei a sapere della sua “diversità” e ciò da un lato le conferisce un enorme senso di potenza (“…solo con la mia malattia sono importante, sono qualcuno. Senza di essa sarei nessuno, sarei come tutti!”). Ma, prima o poi, la “diversità” diventa palese. In fondo, il fine ultimo dell’essere “diversi”, è proprio quello di farsi riconoscere come tali (sennò, il sintomo che scopo avrebbe?).
Al manifestarsi del disturbo, l’omeostasi della famiglia o del gruppo di appartenenza subisce un duro colpo. Le relazioni divengono di difficile gestione. L’“anoressichina” o la “poverina-che-mangia-e-vomita” o la “paffutella-che-si-abbuffa” andrebbe accudita come un bebè. Ma lei non ha nessuna intenzione, coma farebbe un normale infante, di sottomettersi, di seguire le direttive alimentari o educative che i genitori o il gruppo di appartenenza propongono. Anzi: appena qualcuno parla del suo malessere o del suo strano rapporto con il cibo monta su tutte le furie; vuol essere lasciata in pace; si chiude in se stessa o esplode in crisi isteriche o in atteggiamenti aggressivi.
Il disturbo alimentare non è che la “valvola di sicurezza” attraverso la quale le tensioni del sé si manifestano al mondo esterno. Ne consegue che la cura del sintomo – come spesso praticata in strutture pubbliche e private – non può, né deve rappresentare il fine ultimo di una qualsivoglia terapia. La cura di anoressia, bulimia e alimentazione compulsiva non deve transitare soltanto dalla riconquista di un peso corporeo adeguato. Solo una rieducazione del “nucleo” ovvero la sede psichica della malattia, può garantire una vera guarigione. Il disturbo alimentare non ha niente a che fare, stricte sensu, con l’alimentazione. È un disturbo della meccanica psicologica che produce quel sintomo specifico! Quindi, fin tanto che la terapia si rivolge al cibo, il nucleo resta ammalato e la personalità rimane anoressica (senza appetito di vita) o bulimica (incapace di incamerare affetto e amore) o iperfagica (vogliosa di incamerare tutto senza essere in grado di gestire il rapporto con quanto assimilato).