PROBLEMI DI COPPIA
Spesso nella coppia si creano equivoci comunicativi, dovuti alla facilità con cui si tende a leggere la comunicazione dell’altro in base ai propri significati, presupponendo una comprensione “telepatica” da parte del partner: “Non posso crederci: lo sa che…”. Ci si aspetta che l’altro sappia, che l’altro capisca senza bisogno di parlare, di spiegare. Ciò che rende più o meno possibile ad una persona attraversare l’esperienza della delusione, della crisi, dei problemi di coppia, in modo evolutivo è la maggiore o minore legittimità attribuita alla presenza di sentimenti negativi nelle relazioni affettive. Per cui ci sono persone che hanno appreso ad evitarli, a negarli, a scaricarli sull’altro, piuttosto che ascoltarli, riconoscerli e gestirli. In alcune famiglie infatti vi sono sentimenti innominabili e del tutto illegittimi, tanto che il bambino è portato a concludere che le sue percezioni non esistono o a sentirsi terribilmente in colpa per il fatto di provarle ed essere costretto ad imparare a sostituirle, pur di ricevere dagli altri riconoscimento e contatto. E’ così che l’essere umano impara a ricattare, a manipolare l’altro per garantirsi la sopravvivenza, per ricevere carezze, manifestando sentimenti non autentici, che lasciano comunque un senso di insoddisfazione. Impara a piangere, piuttosto che arrabbiarsi, a sorridere invece di piangere, e così via. Per costoro sperimentare in prima persona la rabbia, la delusione, la frustrazione nei confronti del partner, significa non amarlo. E risulta quindi meno doloroso, anche se fastidioso, leggere il difetto dell’altro, per esempio, come cattiveria, come incapacità, come inadeguatezza, piuttosto che come una modalità di essere che non si riesce a tollerare. Perché traducono “non tollerare” come “non amare”. “Se disprezzo o provo rabbia non sono capace di amare e quindi non sarò amata”, oppure “se tu provi rabbia non sei capace di amarmi”: è una sorta di sistema coercitivo che obbliga le persone a sacrificare gratificazioni autentiche in favore di modesti guadagni affettivi ottenuti mediante comportamenti artificiali e spesso inconsapevolmente ripetitivi.
Imparare a percepire il difetto dell’altro come diversità, e non come un’incapacità o una cattiveria, è un salto psicologico evolutivo difficile ma fondamentale, che si concretizza nel provare a centrare la propria comunicazione su ciò che si prova, piuttosto che su ciò che si pensa, cominciare a riflettere sul perché si provano determinate emozioni di fronte al limite dell’altro, aprirsi cioè innanzitutto alla propria diversità, alla possibilità di essere diversi da come ci si pensava e iniziare pazientemente a modificare le proprie regole comunicative. Ciò non va confuso con una passiva accettazione dal sapore rassegnato e vittimistico, che sovente viene espressa con la frase “è fatto così, non ci posso fare niente”, al contrario si tratta di un’operazione che attiene ad una dimensione intenzionale dell’essere umano, alla sua volontà di mettersi in una prospettiva di cambiamento insieme all’altro. Sottostante al sentimento di rassegnazione davanti alle “mancanze” dell’altro, imperversa un tarlo quanto mai mortifero, l’essere convinti che la strada del cambiamento di se stessi sia per qualche motivo preclusa o inaccessibile: sotto la vissuto di ineluttabilità dell’altro alberga la prigione del “Sono fatto così, non c’è niente da fare, è lui che deve aiutarmi!”. Invece la coppia diventa terreno fertile di possibile reciproca crescita insieme e cambiamento virtuoso.
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