UN CASO DI ANORESSIA E BULIMIA
Oggi voglio riportare un esempio di un pezzo di percorso terapeutico fatto con una mia paziente con un problema di anoressia con vomito. Ad un certo punto durante una seduta, le chiedo di immaginare che ci incontriamo oggi per la prima volta e di raccontarsi per come vorrebbe essere: vorrebbe tornare indietro ed essere se stessa, non come gli altri la vogliono. Cosa lo impedisce? Il peso del passato, ciò che gli altri si aspettano. Sottolineo il valore della narrativa: lei può riscrivere una nuova storia, raccontarsi una nuova versione di sé e della sua vita, è lei che ha in mano la penna e davanti un libro su cui scrivere.
La sua famiglia sembra in effetti un castello fortificato: lei non sa più uscirne o forse non vuole, è una prigione che lei stessa si è costruita. F. chiede come può trovare il modo di uscire, dico che deve volerlo trovare. Lei rimugina sul passato, “ormai ho perso tanti anni, i più belli”. Commento che può scrivere una nuova storia a partire da ora, se continua a rimpiangere il passato è una scusa per rimanere lì incatenata. F. in effetti paragona la sua vita ad una catena: tanti anelli si aggiungono negli anni (ad esempio la gestione della spesa e della cucina, il senso di tristezza, di angoscia e insoddisfazione). Rimando che in fondo lei ha potere, possibilità di romperli, ma non vuole: cosa lo impedisce? Restituisco la mia sensazione di sentirmi divisa in due, scissa: una parte sa che F. può uscire dalla situazione e guarire, l’altra parte non ci crede, pensa che siamo qui solo a perdere tempo, vorrebbe gettare la spugna, e crede che in fondo F. così ci sta bene. Forse anche lei è divisa così, quale parte vuol far vincere? F. risponde che in questa situazione non sta bene, ma ha paura.
All’incontro successivo le chiedo se ha pensato alle cose che ci siamo dette la volta scorsa. Dice di sì, deve trovare la motivazione a guarire dentro di lei, non in cose esterne, ma per lei è difficile, “se dovessi guarire per me…”. Per chi allora, le chiedo? Sì, per sé, ma non trova fiducia, anche i genitori sono ormai arresi e questo la fa soffrire, assorbe da loro questa arrendevolezza. Osservo che se viene qui forse un po’ ci crede. In realtà afferma che viene proprio per trovare la motivazione e la forza, per tenere acceso il lumicino di speranza.
Restituisco che per ora forse è giusto che F. non cambi, se no il suo sintomo non sarebbe servito a nulla, anzi avrebbe la prova che in famiglia è accettata solo se è perfetta e va tutto bene. Lei urla la sua protesta e il suo dolore in una piazza di sordi, la sua sofferenza è diventata un sottofondo inascoltato in famiglia. Non può lasciare la malattia adesso, sarebbe una sconfitta, tanti anni per farsi sentire e vedere non sarebbero serviti a niente. Accetto quindi il sintomo ma paradossalmente sottolineo che io lavoro per il cambiamento, quindi se tra un tot di tempo non cambia nulla ci lasceremo! “Ma io non so come cambiare, cosa fare!”. Le dico di pensarci per la prossima volta. Mi prendo la responsabilità di sospendere perché non ho avuto effetto, non tolgo tempo agli altri pazienti che sono più bravi a cambiare! (così il cliente deve decidere: se è legato e ha fiducia nel terapeuta è costretto a cambiare per non perderlo)
Cosa le fa paura se immagina che tra sei mesi guarisse? Il cambiamento fisico un po’, ma soprattutto il senso di vuoto che ora riempie col cibo.
Ha rabbia perché gli altri vedono solo il lato fisico della malattia, non il suo disagio interno, questo la fa soffrire e la tiene ancor più ancorata al sintomo. Propongo la metafora del pilastro del tempio: lei è inchiodata lì a tenere in piedi la famiglia. Infatti F. riconosce che se fa un passo avanti e gli altri dicono “ti trovo bene”, lei si spaventa e torna indietro di tre! Commento che forse le ricordano di stare bene “incementata” lì, se no il tempio crolla! Riconosce che è così, ma è pesante…
F. è consapevole che la malattia è una maschera, ma non conosce altri modi per comunicare: “se miglioro, poi pensano che sto bene!”. Insieme sarà possibile trovare il modo per togliersi finalmente quella maschera!
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